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BLOQUE 4. Artistas, mujeres de teatro y espectáculo

La sfida di Zaha Hadid: arte architettura

Laura Ciccarelli

UNED

Riassunto: L’architetta Zaha Hadid è una pioniera del XX secolo. Si affaccia sulla scena internazionale all’inizio degli anni Ottanta e da subito si intravede la sua carriera di archi star. Gli ingredienti del successo ci sono già tutti: donna, irachena di nascita e inglese d’adozione, si laurea a Beirut e poi a Londra. Inizia la sua sperimentazione architettonica segnata da un’estetica anticonvenzionale che seguirà un personalissimo percorso creativo. La sua è un’arte poetica e visionaria difficile da coniugare con il mondo dell’architettura. Prima donna ad ottenere il Premio Pritzker nel 2004.

Parole chiave:Premio Pritzker; Archistar; Malevic; Masterplan; Anticonvenzionale; Oltre la modernità.

La mia famiglia vedeva nell’istruzione il passaporto per una realtà migliore ma io non ero sicura di ciò che veramente volevo fare. Fu solo durante il mio quarto anno alla AA (Architectural Association) che mi resi conto di quanto il mondo dell’architettura fosse eccitante ed emozionante. Si trattava veramente di una passione per il lavoro. Ero un’allieva di Rem Koolhaas e il nostro gruppo di studio era molto diverso e innovativo. Voleva aprire la porta a un mondo che non era ancora stato inventato (Guccione 2007: 90).

Con ingenuità, propria di una studentessa, Zaha Hadid pensava di aver fatto una vera e propria scoperta.

Non sono una pittrice, devo dirlo con molta chiarezza. So dipingere ma non sono una pittrice. Durante il mio quarto anno alla A.A. mi era parso evidente che non mi era possibile spiegare o esplorare ciò che volevo fare attraverso un metodo di rappresentazione vincolante. Realizzare una pianta, una sezione e un prospetto non era sufficiente. Dovevo andare oltre, fino alla realizzazione del modello, ma erano i dipinti, molto elaborati, soprattutto nelle informazioni prospettiche o di torsione, a informare realmente il lavoro. Non ho mai amato la parola compromesso - implica sempre un indebolimento del progetto. (Guccione 2007: 110)

Zaha Hadid da subito ha giocherellato con una quantità di oggetti. Una volta insieme ad altri colleghi fece una casa in Olanda e utilizzò tecniche grafiche per illustrare le loro idee. “Avevamo dieci opzioni, c’erano dieci architetti, ciò che facemmo era di realizzare così tante alternative che alla fine sarebbe stato facile sistemare le cose”. Non si tratta di un oggetto chiuso, finito. Non è sempre facile recedere quando devi fare cambiamenti strutturali oppure il committente non è d’accordo con te o, ancora, ha dei vincoli finanziari. Devi dare velocemente una sistemazione all’edificio, cosi che esso non perda l’idea centrale”1.

La grandezza di Zaha Hadid è stata quella di aver sempre ribadito che l’architettura doveva offrire piacere.

Entrando in uno spazio architettonico, le persone dovrebbero provare una sensazione di armonia, come se stessero in un paesaggio naturale, aldilà delle dimensioni e del valore economico dello stesso; è qualcosa che non ha nulla a che vedere con il prezzo, piuttosto con le emozioni che l’architettura riesce a trasmettere. Basti pensare alla spiaggia di Copacabana: è un luogo meraviglioso, ha una sabbia bellissima e pure l’ingresso è libero, gratuito. Il lusso a grande scala è per tutti: questo è lo scopo dell’architettura. (Guccione 2007: 200)

Quando Zaha Hadid si affaccia sulla scena internazionale all’inizio degli anni ‘80, da subito si intravede la sua carriera di archi star. Gli ingredienti del successo ci sono già tutti: donna, irachena di nascita e inglese d’adozione, sì laurea prima a Beirut in matematica e poi a Londra in architettura presso la prestigiosa Architectural Association, di cui diverrà presto docente. Dopo la triennale collaborazione con l’Office for Metropolitan Architecture di REM Kollhaas e Elia Zanghelis, apre nel 1979 il suo studio professionale nella capitale inglese. Prima donna a ricevere nel 2004, il Pritzker Prize, l’equivalente del Nobel in architettura, fin dagli esordi è’ affascinata dalle avanguardie artistiche del Novecento. Da cui prende avvio la sua sperimentazione architettonica segnata da un’estetica anticonvenzionale e visionaria che seguirà un personalissimo percorso creativo. Zaha Hadid non è stata un architetto in senso stretto, ma è stata anche pittrice e designer, progettista a tutto tondo, ha frequentato con grande dimestichezza ambiti disciplinari molto diversi. Il suo lavoro ha preso forma in un contesto culturale ampio ed eterogeneo dove le radici del mondo arabo si mescolano con le astrazioni degli artisti suprematisti, il rigore del Bauhaus con le suggestioni dell’informale del pop, l’adesione al modernismo con l’energia legata ai concetti matematici di campo e flusso. Il risultato, dopo trent’anni di attività - nei numerosi progetti e nelle opere realizzate in tutto il mondo - è un nuovo modo di concepire lo spazio architettonico. Zaha Hadid concepisce lo spazio come uno spazio libero dalle consuete coordinate cartesiane; uno spazio creato da linee e campi di forza, secondo geometrie agili e dinamiche capaci di prefigurare paesaggi fluttuanti.

La visione pittorica dello spazio architettonico è il punto di avvio della ricerca di Zaha Hadid. Illuminante è stato il titolo della tesi di laurea Malevich’s Tektonik. Un evidente richiamo all’opera del maestro del suprematismo che ispira il gioco compositivo di una struttura edilizia coperta sul Tamigi, sulla falsariga di Ponte Vecchio Firenze. “È necessario creare un nuovo ordine o, chissà, forse diversi ordini. La fluidità della pianta, la sua frammentazione, l’azzardo perfettamente calcolato sono idee desunte da Malevic e dai Suprematisti che conducono a nuove forme di utilizzazione e creazione dello spazio”, dirà più avanti la progettista per spiegare i motivi delle sue fonti d’ispirazione.

In particolare, l’opera di Malevic ha rivestito una grande importanza per l’evoluzione delle piante dei suoi edifici.

Senza dubbio le piante dei progetti che ho creato in questi anni, sin dall’inizio della mia attività, sono state influenzate dalla fermentazione, dal caos calcolato e dalle nuove figure dello spazio e immaginate dai Suprematisti. Da questi ho imparato anche come liberarsi dalla legge di gravità, non nel senso stretto del termine, piuttosto per la possibilità di sperimentare nozioni di architettura al di fuori di paradigmi definiti, regole esistenti. (Hadid 2009: 100)

La lezione di Malevic e dei Suprematisti è stata, d’altra parte, fondamentale per lo sviluppo dell’architettura moderna. Non si potrebbe pensare alla leggerezza e alla tendenza a librare verso l’alto che ha creato i presupposti per i grattacieli di Mies Van Der Rohe a Chicago e New York, senza citare questi grandi artisti russi. La sua architettura è fortemente influenzata dal movimento moderno. (Guccione 2007: 80).

Malevic, per Zaha Hadid, è un punto di riferimento importante. Malevic ha teorizzato i planiti nel 1923-24 progetti di architetture future dello spazio. Erano strutture costituite da forme suprematiste pensate come abitazioni ma non collocate sulla terra. Malevic le immaginava come aereo-città che lievitavano nello spazio tra terra e luna. “lavorando al Suprematismo ho scoperto che le sue forme non hanno niente in comune con la tecnica della superficie terrestre, tutti gli organismi tecnici non sono altro che piccoli satelliti, tutto un mondo vivo pronto ad immolarsi nello spazio”.

In uno dei suoi planiti una linea forza teneva unite le forme suprematiste lungo l’asse longitudinale del disegno alludendo alla loro collocazione aerea; la scritta sotto ad un suo disegno afferma “il planit deve essere universalmente tangibile per l’abitante della terra, egli può stare ovunque sopra o dentro la casa, può vivere altrettanto bene dentro che sul tetto del planita, la concezione del planita ne facilita la pulizia può essere lavato senza particolari accorgimenti, ognuno dei suoi volumi è un pavimento che progressivamente si alza mentre l’accesso pedonale è come salire le scale, le pareti sono riscaldate così come i soffitti e i pavimenti.” (Petrova, Di Pietrantonio 2015)

Malevic introduce un nuovo sistema artistico di tipo universale. La geometria rettilinea suprematista sconfina nelle arti applicate, in particolare nella progettazione architettonica, la costruzione dell’universo suprematista comporterà l’applicazione dei canoni architettonici suprematisti a qualsiasi tipo di forma, dalla ceramica alla decorazione dei vestiti.

La sintesi dell’edificio architettonico verrà ottenuta quando tutte le forme degli oggetti che si trovano in esso saranno integrate dall’unità delle loro forme, del loro colore, di conseguenza la pittura, la scultura, l’architettura devono essere strettamente legate fra loro.

Malevic non fa veri progetti architettonici, ma disegna strutture, edifici fantastici per trasformare la concezione dell’abitazione e dei modelli di vita. “Jota” è stata una delle prime sculture architettoniche progettate da Malevic, le sue sculture erano in gesso bianche e nere e non. La struttura è costituita da un grande parallelepipedo centrale, intorno al quale si dispongono forme geometriche regolari secondo varie direzioni. Malevic ha creato degli archetipi e Zaha Hadid li ha messi in atto dopo circa un secolo.

I suoi primi progetti guardano anche l’esperienza neoplastica di Mondrian e Rietveld e alla spazialità fluida di Kandinsky e di Mies Van Der Rohe. Sono dei grandi dipinti che non descrivono il progetto finito: il mezzo grafico non è una modalità di rappresentazione, bensì di creazione, è la diretta espressione del processo creativo. I disegni rappresentano con molteplici visuali simultanee la tensione tra forme di energia che può produrre uno spazio architettonico progressivo e privo di condizionamenti. Un efficace riepilogo del 1983 – The World (89 Degrees) – raccoglie tutti i suoi lavori, montandoli in un unico paesaggio artificiale che, da un angolazione aberrata, quella di un missile in fase di decollo, permette di vedere la curvatura della terra capovolgendo l’orizzonte consueto e moltiplicando i punti di vista in ragione del movimento e della velocità. È una rappresentazione che dimostra come la strada intrapresa possa portare un nuovo modo di concepire l’architettura. E ne enuncia efficacemente i postulati: le spazialità architettoniche non sono legate alla statica della geometria euclidea, ma si possono esplorare con dinamiche simultanee, non solo geometriche ma anche temporali e sensoriali. Nello stesso anno, il primo premio al concorso internazionale per Hong Kong Peak segnala sulla scena internazionale la forza espressiva del pensiero di Zaha Hadid. Il progetto prevede una sorta di “grattacielo orizzontale” che, situato sul punto più alto della colonia, è una leggera struttura poli direzionale, formata da strati orientati in modo diverso e in equilibrio precario. Gli elementi che lo compongono sono frammenti geometrici astratti, le cui forme puntano a una sistemazione aperta, intensa e instabile, del paesaggio circostante. I successivi progetti, di nuovo rappresentati da punti di vista inediti, verificano le potenzialità di questi idee, applicandola tutte le scale, dagli oggetti di design ai piani di sviluppo urbano e paesaggistico: la disarticolazione delle forme lungo linee di forza ai flussi di energia a intensità variabile, è il tema sviluppato nell’arredamento di un alloggio a Londra (24 Cathcart road, 1985 -1986); la contaminazione di geometrie contrapposte nel bar-ristorante Monsoon, a Sapporo (Giappone 1990), realizza due spazialità diverse ma complementari, sottolineate da un efficace uso del colore: grigi, freddi e metallici quelli del ristorante, a contrasto con i rossi, accesi e caldi, del bar; una sovrapposizione di strati genera il blocco per uffici sulla Kurfürsterdamm a Berlino (1986) e lo studio di una composizione di equilibri instabili caratterizza l’edificio per appartamenti IBA (Berlino 1987) realizzato poi, nel 1993, in modo difforme dal progetto; il controllo di una caotica e colorata frammentazione di segni è alla base del piccolo intervento per un padiglione video-musicale a Groningen (Olanda 1990); l’articolazione del suolo e l’idea di una topografia stratificata che moltiplica i livelli pubblici avvia con il progetto per il Kunst Media Center di Düsseldorf (1989-1993) una sperimentazione sui suoli artificiali da stratificare come se fossero un paesaggio. Così nella Cardiff Bay Opera House (1994), che riceve il primo premio del concorso internazionale, l’intero suolo si gonfia in una sfera che diventa il foyer del teatro e allo stesso tempo estensione della grande piazza ovale antistante. Anche le istallazioni, le esposizioni, gli allestimenti temporanei, il design sono occasioni molto produttive per la messa a punto della scrittura progettuale della Hadid. Nel 1992 il progetto The Great Utopia, dedicata dal museo Guggenheim di New York alle avanguardie russe, interagisce direttamente con la spirale disegnata da Frank Lloyd Wright, dove viene collocata la Tatlin Tower, predisponendo un allestimento dalla forte caratterizzazione spaziale, lontano dalla bianca regolare neutralità dei modi di esposizione delle opere d’arte nei musei.

Per la Hadid gli anni Novanta sono cruciali per la messa a fuoco dei temi dominanti del suo lavoro. Si apre una fase nuova, con alcuni edifici realizzati, che costituiscono un banco di prova per le sue idee. La Vitra Fire Station - una caserma dei Vigili del Fuoco a Weil am Reihm (Germania 1993 ) che è tra le prime opere costruite - nasce da una serie di linee di forza centrifughe che si rincorrono e si aprono al paesaggio. I setti murari dell’edificio, definendo uno spazio notevole dall’incerto confine tra interno ed esterno, materializzano le immagini che la progettista aveva fissato nei suoi dipinti. Nello stesso tempo, la stazione è legata al paesaggio in modo singolare, grazie al sistema di rimandi visivi che i volumi tagliati dell’edificio riescono a generare nel luogo. L’attenzione alla sinergia con l’ambiente, apparentemente in contrasto con l’impostazione astratta della progettazione, sarà sviluppata in molti altri progetti come nel piccolo padiglione LFOne a Weil am Rhein (1993 -1999), la cui fluida e armoniosa geometria diventa parte integrante e indispensabile del parco circostante. Le forme architettoniche aperte, allungate e taglienti dei progetti di questi anni sviluppano un vero e proprio repertorio formale, sulla base di alcune nozioni chiave che confermano la sua fama di architetto svincolato dalla prassi consueta del fare architettonico. In realtà è il concetto di spazio come entità assoluta che viene messo in crisi dalla Hadid, scardinando la prospettiva da un unico punto di vista per indagare la compresenza di diversi tipi di esperienza spaziale.

Il suo motto era: “fornire spazi potenzialmente in grado di dare piacere e di aggiungere qualcosa alle nostre vite”.

Nelle sue idee lo spazio privato si permea con quello pubblico e viceversa. Ad esempio la scomposizione in pixel e l’aggregazione verticale determinano la spazialità porosa del Rosenthal Center for Contemporary Art di Cincinnati (1998) in cui un lembo di suolo pubblico si eleva da terra e convoglia la strada e lo spazio urbano all’interno del sistema verticale di distribuzione delle funzioni del Centro. Viceversa, un’espansione orizzontale secondo campi di energia organizza il progetto per il MAXXI, il museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma (1999 - 2008), seguendo un metodo che sarà frequentemente adottato. A Roma, il sito diventa realmente parte integrante della città grazie a un flusso di forze che espandendosi oltre gli esili argini del lotto disegna un insieme di volumi intrecciati e sovrapposti. L’idea è quella di un campus urbano, in cui la tradizionale nozione di edificio si amplia in una dimensione più vasta e investe tanto lo spazio della città quanto quello interno, che contiene le funzioni espositive e museali. Nel corso della storia, la tipologia del museo è cambiata enormemente - non è più quella terribile serie di stanze poste in sequenza come in un palazzo. Si è trasformato in un posto in cui è possibile sperimentare l’idea di galleria, la luce e il movimento, l’idea di pubblico e di allestire contemporaneamente mostre che possano soddisfare pubblici differenti. “Si dice che i musei siano diventati shopping centers ma io trovo positivo il fatto che attraggano così tanta gente. Il legame tra cultura e vita pubblica è problematico e ciò che veramente differenzia il Ventesimo secolo dal precedente è che il fruitore non è più solo il mecenate. Il fruitore è la massa, si tratta di molte persone”.

Non si può pensare che una città sia fatta solo da persone che vivono insieme, perché quel che si ottiene così è solo una periferia. Una parte importante del lavoro dell’architetto consiste nell’urbanizzare la città, nell’investire realmente in programmi pubblici. La città debba investire in proposte che interessino la collettività e i suoi programmi culturali - giardini, complessi per l’arte, educazione e altre attività comuni - siano molto importanti. Zaha Hadid non crede ad una città monotematica. L’idea centrale dei progetti museali è quella di fornire ai curatori un’incredibile varietà in termini di possibilità espositive, molte soluzioni di posizionamento e composizione delle opere e delle installazioni, maggiore è la varietà di spazi che un museo può offrire, più accentuata sarà la sua flessibilità. “Non ci interessa più il cubo bianco, pretendere che le cose stiano per forza in un certo modo - anche se devo dire che i curatori sembrano esporre le cose sempre nella stessa maniera. Credo che oggi ci sia bisogno di avere una maggiore varietà di spazi espositivi, anche in considerazione che l’intero mondo dell’arte è in continuo mutamento, come dimostra il continuo ping pong tra pittura e istallazioni”.

A Roma come a Strasburgo, nel Terminal multimodale Hoenheim Nord (1999 -2001), la sovrapposizione di traiettorie multidirezionali prodotte dal passaggio degli utenti si solidifica, con elementi architettonici accostati o interconnessi. Questi combinano il pieno e il vuoto in un continuum fisico e percettivo, punteggiato da segni che si propagano in risonanza. In netta antitesi con gli edifici tradizionali, le opere di questo periodo sembrano sperimentare diverse forme di libertà espressiva, anche nell’uso dei materiali. Zara Hadid adotta i materiali del moderno: cemento, vetro, acciaio ma tende a utilizzarli a livello di massima esasperazione formale e strutturale. Il cemento, per esempio, non è solo un materiale costruttivo, ma serve a sostanziare l’immagine degli edifici, la forma e la qualità degli spazi architettonici.

Nella progettazione d’interni, l’interesse si rivolge a materiali innovativi, termo-formabili: superfici continue che catturano il tatto, emettono informazioni e si trasformano al variare della luce.

La ricerca di una continuità spazio-temporale investe molte altre manifestazioni creative della progettista anglo irachena. Per la scenografia del balletto di Fréderic Flamand, Metapolis (Charleroi Danses, Belgio 1999), crea spazialità fluide, ibride, che esasperano i movimenti dei ballerini. Gli artisti sembrano intrappolati in uno spazio che mima il ritmo del respiro, in un’alternanza costante tra compressione e rilascio. Così i tavoli, le panche e i divani, progettati per Sawya & Moroni (Z-scape, 2000) si dispongono nello spazio secondo composizioni dinamiche e seriali. Attraverso forme ergonomiche, applicano anche al tema domestico il linguaggio disarticolato dell’astrazione.

La Hadid, il cui successo annunciato ha raggiunto una consacrazione internazionale, ha utilizzato soprattutto il computer per portare avanti i propri progetti. Nell’ultimo periodo il disegno digitale era particolarmente congeniale allo sviluppo del suo linguaggio architettonico e all’immaginazione dei nuovi mondi che - reali o virtuali che fossero - sì sono dispiegati aldilà della metropoli fisica contemporanea. Questo è particolarmente visibile nei grandi masterplan elaborati per Singapore (One North Masterplan, 2001) e per New York (NYC 2012 Olympic Village, 2004) che estendono la ricerca sui temi della manipolazione del suolo e la sperimentazione su forme e spazialità dinamiche alle questioni di pianificazione urbanistica. I master plan prefigurano un’esperienza urbana capace di adattarsi in maniera flessibile agli stili di vita del domani. Il paesaggio è sempre più al centro di un nuovo interesse progettuale, esplora una dimensione tridimensionale inedita, legata al movimento non più delle linee ma di vere e proprie masse. Sono masse prodotte con una gestualità che articola il suolo, lo fende, lo solleva e lo deforma per produrre forme plastiche, spazialità curve, superfici morbide. Figure concave e convesse in dialogo tra loro che sembrano originate dall’osservazione di fenomeni naturali, come lo scioglimento dei ghiacciai o il movimento della lava di un vulcano. Riecheggiano le architetture brasiliane di Oscar Niemeyer, un maestro considerato “di straordinario interesse dal punto di vista formale… L’intero progetto della fluidità inizia proprio con lui.” Gli esiti di questa stagione sono nelle ultime opere realizzate: il complesso del museo della scienza Phaeno a Wolfsburg (2000 - 2005), in analogia con le stratificazioni del paesaggio geologico, si presenta con un volume crateriforme, sostenuto da grandi coni rovesciati; l’ampliamento dell’ Ordrupgaard Museum a Copenhagen, inaugurato nel 2005, vede l’edificio nascere dalla terra come un guscio che oscilla nello spazio del giardino. E, tra gli ultimi progetti, il Museo di arte nuragica e contemporanea di Cagliari (2006) riconfigura il fronte mare della città sarda con un segno che rimanda a una concrezione corallina. Una grande massa organica, erosa all’interno, che nell’enorme cavità si articola in una successione di spazi aperti, luoghi di ritrovo e installazioni d’arte contemporanea.

Dietro questa esuberanza spaziale si nasconde l’esigenza reale di organizzare programmi multipli, dinamici all’interno di contesti urbani densi. Ciò porta il ripudio delle forme chiuse e all’adozione di strategie flessibili di networking e layering. Quella orizzontale è sempre stata la dimensione espansiva primaria di questo novello dinamismo. Il Peack di Hong Kong - ribaltando metaforicamente le torri di Hong Kong per dar vita a un insieme orizzontale di raggi - è stato il progetto paradigmatico di questa prima ondata di lavori. La stazione dei vigili del fuoco di Vitra, il Media Center di Dusseldorf e l’opera House di Cardiff sono ulteriori esempi molto noti della prima produzione. In seguito a questi primissimi progetti programmatici Zaha Hadid Architects ha contribuito allo sforzo collettivo dell’avant-gard di forgiare un nuovo linguaggio architettonico fluido e adattabile che rispondesse ai maggiori livelli di complessità sociale e urbana. La vita urbana contemporanea sta diventando sempre più complessa, con pubblici mutevoli e sovrapposti dalle esigenze multiple e simultanee. La densa prossimità delle differenze e una nuova intensità dei collegamenti distinguono la vita contemporanea dal periodo moderno della separazione e della ripetizione. Il compito è quello di ordinare e di articolare questa complessità in modi che ne conservino la leggibilità e l’orientamento. Per far fronte a questa sfida, sta emergendo un nuovo linguaggio architettonico che trae la sua ispirazione dei sistemi naturali (organici inorganici). Questo linguaggio recente fiorisce attraverso i nuovi strumenti digitali che hanno arricchito il processo di progettazione con tecniche di continua variazione della forma. Questo approccio privilegia la curvilinearità e permette la fusione di traiettorie multiple in una trama coerente. Contro questa storia contemporanea di fluidità sociale architettonica si erge la figura rigida e solitaria del grattacielo. Penultimo simbolo architettonico del modernismo, il grattacielo oggi sembra imprigionato nel vetusto paradigma fordista della segmentazione segregante e della ripetitività seriale. La tipologia della torre è l’ultimo bastione di quell’epoca passata che finora ha sempre resistito all’iniezione di qualsiasi misura significativa di complessità.

Le torri sono tuttora governate dalla pura quantità. Generalmente, il loro volume origina da pura estensione e i loro spazi interni non sono altro che la moltiplicazione di piani identici. Si tratta di corridoi verticali senza uscita, generalmente staccati dal piano della superficie con un podio. Tutto ciò accade per validi motivi economici, ma esistono ragioni altrettanto forti per sostenere che forse è giunto il momento di contrastare la tipologia della torre, armati con i nuovi concetti e le ambizioni del nostro nuovo linguaggio architettonico.

Zaha Hadid Ci si è astenuta dalla progettazione di torri per un lungo periodo di tempo. Quando doveva andare in alto ha preferito la lastra che, con la sua estensione laterale, concede più margine alla manipolazione spaziale. La tragica distruzione del World Trade Center pone la questione di cosa potrebbe sostituirlo. Quale tipo di struttura organizzativa potrebbe soddisfare gli attuali processi di impresa e di vita e quale tipo di linguaggio formale esprimerebbe meglio la nuova era? L’epoca del grattacielo ripetitivo si è conclusa perché la struttura organizzativa del grattacielo è troppo semplice e restrittiva. Le torri crescono in una sola dimensione. La rigida linearità della sua estensione ne spiega la caratteristica mancanza di connettività. Le torri sono unità ermetiche che a loro volta sono assortimenti di un’unità altrettanto ermetiche (i piani). Queste proprietà di linearità e di rigida segmentazione sono antitetiche sia alle relazioni imprenditoriali che alla vita urbana contemporanea in genere. Per ordinare spazialmente e per esprimere le relazioni sociali contemporanee sono necessari molti più alti livelli di complessità. Tuttavia, la fine del fordismo e del grattacielo in quanto suo archetipo sociale, non implica la rinuncia alla scala larga né all’alta densità. Sia la grandezza che la densità sono in aumento nelle metropoli contemporanee.

La sua bozza di progetto per una nuova torre a Ground Zero proponeva un fascio di torri dove i vari tubi e fibre del fascio sorgevano da diverse traiettorie orizzontali che aveva individuato all’interno del sito. In questo modo, avevamo concepito un forte dispositivo di composizione per interfacciare la torre con le configurazioni complesse del suolo.

Partendo da questi nuovi presupposti la tipologia della torre riceverà nuova vita nelle società metropolitane centrali dove il desiderio di connettività (piuttosto che di mera quantità) gestisce la densità urbana. In futuro, in modo più evidente di ora, questo accumulo super denso diventerà un accumulo a utilizzo misto, dove molteplici processi di vita s’incroceranno. Questi processi di vita vanno ordinati in maniere intricate che, tuttavia, dovranno rimanere leggibili. Più che mai, il compito del progetto architettonico riguarderà l’articolazione trasparente di relazioni per l’orientamento e la comunicazione. La differenziazione, l’interfaccia e la navigazione degli spazi viene enunciata come agenda chiara che richiederà l’utilizzo di una lingua architettonica sofisticate e versatile da articolare in tutte le sue forme e contesti. (Celant Ramirez 2006: 93).

Zara Hadid è l’architetto che ha creato nuove spazialità contemporanee. Tre sono le chiavi di lettura per capire il suo racconto architettonico.

La prima è quella della metafora. Il lavoro di Zara Hadid cerca di tradurre nello spazio i principi dell’era dell’informazione e dell’elettronica: interazione, simulazione, correlazione, flusso di dati, immaterialità. E questo avviene con immagini forti e di grande efficacia. La fluidità che prende corpo nei suoi progetti determina uno stato energetico e attraente, leggero esaltante, che sembra mimare la simultaneità del funzionamento della mente, la verità ininterrotta del flusso dei pensieri, lo scorrere luminoso delle informazioni in rete. La seconda è legata allo spazio. Lo spazio di Zara Hadid è un irresolubile intreccio tra principi contrapposti. Elementari. Pieno/Vuoto, pesante/leggero, solido/fluido, aperto/chiuso, opaco/trasparente e così via. È uno spazio generato da processi analoghi a quelli che modellano l’ambiente naturale. La forma architettonica che ne deriva non è certo classificabile. Non è una piazza la massa trasparente e permeabile del Phaeno di Wolfsburg, ma un’estensione pubblica che fluisce nel complesso urbano, tramato dalle molteplici possibilità di attraversamento. Non è un volume la Stazione marittima di Salerno, ma l’architettura diafana che sembra svincolarsi dalle leggi di gravità per ancorarsi al paesaggio, con un’instabilità che rimanda continuamente alla presenza delle onde, al paesaggio marino.

La terza riguarda l’idea del paesaggio che attraversa tutta la sua produzione. I paesaggi di oggi sono modellati dalla progettazione digitale ma continuano a sviluppare le visioni aberrate dei primi dipinti. I progetti della Hadid non s’inseriscono nel paesaggio, ma ne delineano di nuovi, dalle forme complesse, inconsuete, paradossali, oltre l’opinione comune. Come avviene nel padiglione LFOne, i suoi gesti progettuali si appropriano della fluida geometria della rete dei sentieri preesistenti per solidificarla momentaneamente in una forma, realizzando l’impossibile mediazione tra un’architettura aggressiva e nello stesso tempo in simbiosi con il luogo.

In Italia, l’indiscutibile fortuna di Zaha Hadid è’ forse legata alla sua capacità di costruire immagini di straordinaria eleganza, che anticipano il futuro ma nello stesso tempo sanno colloquiare con l’esistente. Le architetture dell’Hadid non si oppongono mai al contesto, ne’ si mimetizzano in esso, ma propagano la loro aura in una rete di relazioni fisiche, percettive ed emotive che sono capaci di dare nuova luce all’intorno. Hanno una forza e un impatto radicale simile a quello degli impianti barocchi nella Roma medievale. Nel paesaggio italiano, carico di cultura e di forti significati, le sue opere sviluppano una fertile contaminazione tra l’identità storica e il mondo in cui viviamo.

Un vero dispiacere ed un vero peccato che la società si sia privata così presto di questo grande talento.

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1 Tratto da Architecture and the Museum, intevista di Alice Rawstorn a Zaha Hadid in occasione di Frieze Talks, all’interno di Frieze Art Fair, Londra, 21 ottobre 2005 traduzione di Anna Mainoli, volume edito da Frieze. Frieze Projects: Artist’s Comissions and Talks 2003 -2005.

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